Gli artisti di Napoli

Sagg Napoli, Federico Del Vecchio, Jago e Dramna sono i protagonisti della scena artistica della città. Tra particolari ossessioni, viaggi nello spazio, think tank creativi, Surrealismo e azione politica 
Gli artisti di Napoli

SAGG NAPOLI
Eccessiva e coraggiosa, con le sue performance SAGG Napoli traduce i codici sociali meridionali in un linguaggio internazionale. E dà corpo alle sue particolarissime ossessioni.

Campi Flegrei, prime luci dell’alba. All’interno di un cratere vulcanico deserto presso la storica Arcieria Partenopea, Sofia Ginevra Gianni, in arte SAGG Napoli, tende la corda del suo arco, trattiene il respiro e scocca la freccia. Poi un sibilo, seguito dal gratificante rumore sordo del carbonio che penetra il paglione: bersaglio centrato.
«Mi sono avvicinata al tiro con l’arco qualche mese fa, in un periodo in cui ho sentito la mia salute mentale vacillare», racconta l’artista napoletana. «Con lo scoppio della pandemia, questa antica e nobile disciplina si è rivelata la mia salvezza: mi ha permesso di sviluppare qualità che non sospettavo di possedere, come pazienza, capacità di controllo, concentrazione, e di trovare – paradossalmente in un periodo storico così ansiogeno e convulso – la pace che cercavo da anni. Diventando così una piccola ossessione: mi alleno in media sei ore al giorno».
Classe ’91, protégée del noto curatore Milovan Farronato, che parla di lei negli affettuosi termini di “mia figlia”, SAGG Napoli è assurta alla notorietà grazie a una serie di performance e video nei quali, coltivando un’immagine di donna del Sud forte e anticonformista, si pone l’obiettivo di individuare e tradurre in arte i codici estetici più autentici della tradizione meridionale, allo scopo di renderli più facilmente intelligibili a un pubblico non autoctono e, al contempo, dar loro dignità. «Dalla musica all’arte, all’architettura e alla moda, al Sud si tende ad ammirare e imitare la produttività culturale del Nord, dimenticando che non di rado è proprio il Sud a ispirare, se non addirittura a generare per primo, certe idee estetiche».
Nel 2015 crea una coreografia per scooter – il mezzo di trasporto per eccellenza della gioventù napoletana – per la performance SAGG Demonstration nei Quartieri Spagnoli; nel 2017, su Instagram, inizia a pubblicare divertenti meme imbevuti di estetica pop meridionale, cui spesso affida messaggi che promuovono la liberazione del corpo e della sessualità femminile; lo scorso anno, in collaborazione con il Fiorucci Art Trust, ha lanciato invece SAGG SCOPA FAT, un progetto digitale a favore del Movimento Migranti e Rifugiati Napoli, col quale reinterpreta in chiave erotica il tradizionale mazzo di scopa napoletano, studiandone le origini e mettendone a nudo le valenze semantiche nascoste.
«Come già era avvenuto con lo yoga, disciplina che nel 2015 avevo portato all’interno di una performance teatrale (Demonstration Parigi), anche il tiro con l’arco confluirà presto nella mia pratica artistica», dice. «Mi autorizzerò tuttavia a modificare alcune regole di questa disciplina, a portarla in contesti inusuali e a giocare con la scelta degli outfit. La “donna con l’arco”», aggiunge, «è un archetipo affascinante e potente da incarnare, simbolo di femminilità forte, ma – ci tengo a sottolineare – non necessariamente aggressiva. Vedo infatti l’arco non come un’arma, ma come un’estensione del mio corpo e della mia mente: centrare il bersaglio equivale, ai miei occhi, non tanto ad aver colpito un nemico immaginario, quanto all’aver raggiunto l’agognato equilibrio interiore».

J.F.

Federico Del Vecchio, artista e curatore indipendente (Napoli, 1977), fotografato al Flip Project in via Foria. «Il mio lavoro esplora il senso di smarrimento che caratterizza la condizione psicologica dell’epoca contemporanea e di come la tecnologia abbia cambiato  il nostro stile  di vita». Foto Roselena Ramistella.

FEDERICO DEL VECCHIO
Vent’anni in giro per l’Europa, ma Federico Del Vecchio ha scelto proprio il palazzo seicentesco dove vivono i genitori per dar vita a Flip Project, una “piattaforma di condivisione” in cui le persone incontrate nei suoi viaggi vengono messe alla prova della città.

«Ero entrato nella stanza, in accappatoio, e mi ero seduto alla scrivania affollata di oggetti. Con le mani tremanti e un fare ansioso che non erano soltanto parte dello storytelling, avevo affastellato in una serie di flashback le esperienze di artist in residence che hanno dato vita a ciò che sono adesso». Così, a poco più di quarant’anni, e in occasione di un festival di arte contemporanea a Ernen, in Svizzera, nell’agosto 2020, l’artista Federico Del Vecchio aveva trasformato in una performance dal titolo Yes, Fast (cit.) – che comprendeva anche intonare la canzone Mamma, in una trovata comica per narrare la nostalgia di casa – i suoi vent’anni di storia nomadica per l’Europa.  Caso più unico che raro tra i suoi colleghi, Del Vecchio ha messo da parte l’ego per vivere la sua pratica artistica in modo poco convenzionale: per lui l’arte è dialogo con la comunità (o meglio, con le comunità) con le quali entra in contatto, da Napoli, dove è cresciuto e si è diplomato all’Accademia di Belle Arti, passando per Francoforte, Glasgow, Stoccolma, soltanto per citare alcune delle tappe del suo viaggio. E per fare ineludibilmente ritorno a Napoli. Con la quale – dice – ha un rapporto di amore e odio. Qui, in un palazzo seicentesco del centro e rubando parte dell’appartamento dei suoi genitori, nel 2011 ha dato vita a Flip Project, primo tra gli artist run space della città. «L’idea è stata quella di creare una piattaforma di condivisione che possa continuare nel tempo e in altri luoghi. Invito artisti, curatori, poeti incontrati durante il mio percorso internazionale per condividere momenti di discussione e anche di divertimento, con Napoli a fare non soltanto da scenografia. Perché, con il suo esotismo che affascina e respinge, questa città porta tutti a tirare fuori, con coraggio, ciò che abbiamo dentro». Ne è una prova la mostra che ora è stato chiamato a curare alla Fondazione Morra Greco, uno dei luoghi del contemporaneo più prestigiosi della città, per la quale ha riunito artisti campani nati negli anni Ottanta e Novanta. «A legarli è il luogo che ha dato loro l’urgenza di fare arte», prosegue Del Vecchio. «E quel filo sta nel titolo che ho dato alla mostra: There Is No Time to Enjoy the Sun».
Pur passando ore a parlare degli altri, è restio a parlare di sé. «Mi chiedono spesso: fai l’artista o il curatore? In me queste due figure sono interconnesse. E sono fiero di essere anche un collezionista. Le opere degli artisti che hanno incrociato la mia strada sono state, e sono, fondamentali nel mio processo organico di crescita». Quanto alla sua, di arte, che esplora la scultura con materiali disparati, la vive in modo intimo, lontano da ogni forma di autopromozione. «Non voglio che le mie opere siano oggetti, ma che attivino dinamiche sociali». Come Fétichisme and Lemon Soda, le sue colonne di agrumi spremuti che, al mercato di Ballarò a Palermo durante l’edizione 2018 della biennale Manifesta, hanno attivato un happening che ha rivelato – innanzitutto – l’arte di vivere (anche con poco) nel nostro Sud.

M.F.

L’artista-imprenditore Jago, ovvero Jacopo Cardillo (Frosinone, 1987), fotografato nel laboratorio d’arte Chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi, Rione Sanità. «Prima vivevo a New York, ora ho scelto Napoli. Sono, ciascuna a modo suo, due “città nuove”, che continuano a rinnovarsi. E ti spingono ad avere coraggio». Foto Roselena Ramistella

JAGO
«Da bambino guardavo le opere di Michelangelo  e del Bernini e mi dicevo: devo copiarli per imparare». Oggi Jago, dal suo studio al Rione Sanità, si è fatto largo nel mondo, sui social, ed è perfino arrivato nello spazio. 

Nel 2019 il suo The First Baby, un feto in marmo, è stato la prima opera d’arte a essere inviata nello spazio, con una missione dell’Esa. Ogni mattina, quando arriva al suo studio, la chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi nel Rione Sanità, Jago trova lettere e bigliettini (di apprezzamento, a volte d’amore) che qualcuno gli ha infilato sotto il portone. E la sua giornata di lavoro è scandita da visite di troupe televisive internazionali e gente comune. C’è chi bussa soltanto per offrirgli un caffè. Jago (Jacopo Cardillo, nato a Frosinone nel 1987) sta ultimando, nel marmo bianco di Carrara, la sua Pietà – ed è la prima volta nella storia dell’arte in cui viene rappresentato un padre a piangere il figlio morto – che avrà una sistemazione nella chiesa degli Artisti, a piazza del Popolo a Roma. Quanto a quella che, almeno per ora, è la sua opera più celebre, un busto di papa Ratzinger che aveva esposto alla 54ª Biennale di Venezia, è stata modificata all’indomani delle dimissioni papali per diventare Habemus Hominem, un Papa nudo: a oggi, il video di quel processo scultoreo iconoclasta ha avuto 15 milioni di interazioni sui social. «La scultura è stata il soggetto di centinaia di tesi di laurea», aggiunge Jago. «E io non ho neppure finito l’Accademia. Non ho mai voluto essere rappresentato da una galleria», continua. «Sono imprenditore di me stesso, e mi racconto pubblicando video delle mie lotte corpo a corpo con la materia sui miei canali social. Dicono che la mia arte non è concettuale? Io sono per il fare: il mio studio è un luogo di rumore e polvere». Jago vuole sopravvivere al tempo. Per Napoli, che l’ha accolto con calore, ha scolpito il Figlio Velato, un vivido omaggio al celebre Cristo Velato della cappella Sansevero. Posto nella basilica di San Severo fuori le Mura, al Rione Sanità, attira migliaia di visitatori. «Quella chiesa, e la strada in cui si trova, erano luoghi negletti», spiega. «Ora sono tornati alla vita. Il bar accanto fa affari, e così il b&b di fronte. Sulla strada ci hanno messo un lampione e una panchina: è diventato un luogo d’incontro. Mi piace pensare che qualcuno, lì, si sia innamorato». Nel rione si racconta che quella sia una scultura miracolosa. «Sul blocco di marmo avevo volutamente lasciato il numero che vi avevano inciso nella cava: all’inaugurazione la gente se l’era giocato al lotto e aveva vinto. Qui c’è persino una tabaccheria con un cartello che reclamizza i numeri del Figlio Velato». Le opere di Jago sanno emozionare. Arrivano a tutti, ma non sono soltanto figurazioni straordinariamente ben eseguite. Riguardo ai suoi progetti futuri, aggiunge: «Ho preparato il bozzetto in creta della mia prossima scultura, una reinterpretazione di Aiace e Cassandra, che non sarà più uno stupro come nella mitologia classica, ma una lotta alla pari tra i sessi. Poi scolpirò un nuovo David, alto cinque metri. E David sarà donna». C’è chi, sfidando la storia, ha definito Jago addirittura come il Michelangelo del XXI secolo. Lui sorride: «Fin da bambino guardavo le opere di Michelangelo e del Bernini e mi dicevo: devo copiarli per imparare. Partendo da loro, ho trovato la mia strada».

J.F.

Daniele Ragosta, alias Dramna, in una terrazza in vico Cappuccinelle: «Le ispirazioni di Dramna sono moltepici: la scena club kid degli 80-90, con personaggi come James St. James, Amanda Lepore e sopratutto Leigh Bowery. Spesso attingo anche da film, quadri, soprattutto dal Surrealismo e dalle avanguardie di inizio 900». Foto Roselena Ramistella. 

DRAMNA
Di giorno, pescivendolo. Di notte, Dramna.  È l’insolita routine di Daniele Ragosta,  che ha dato vita a un personaggio surreale  col quale anima piazze e vicoli. Nato per gioco,  oggi è azione politica.

Rampollo di una storica famiglia di pescivendoli napoletani, di giorno Daniele Ragosta vende pesce insieme ai suoi genitori e ai suoi fratelli. Ma al calare del sole, come Bruce Wayne, si trasforma in un “supereroe”. Un supereroe queer, per l’esattezza, che risponde al nome di Dramna: un’affascinante e misteriosa creatura mascherata, nota al popolo della notte partenopea per le sue audaci performance a metà strada tra surrealismo, travestitismo e napoletana veracità. «Il personaggio di Dramna nasce nel 2016 come valvola di sfogo a un lato esuberante della mia personalità che fino ad allora non ero riuscito a esprimere», racconta il trentenne napoletano. «L’idea di travestirsi nasce per gioco nei backstage dei club partenopei. Da regina del dancefloor, col tempo Dramna è maturata in un progetto artistico, per molti versi politico: oggi vedo in questo personaggio immaginario una pagina bianca alla quale, con ogni cambio di outfit, posso divertirmi ad affidare messaggi diversi».  Con il progetto Napoli Svelata, del 2019, Dramna esce dal club per “conquistare la città”, performando per la prima volta in piazze e gallerie; i suoi copricapi, fino a quel momento ispirati ai lavori di Philip Treacy – in particolare a quello a forma di aragosta o alla bombetta glitter –, evolvono in quell’occasione in vere e proprie maschere. «Ne ho create sei, ciascuna delle quali dedicata a un diverso lato del carattere cittadino». Tra le più divertenti, Vanesia, rivisitazione caricaturale dell’ossessione napoletana per il trucco pesante e la chirurgia estetica, e Scaramantica, per la quale indossa un abito interamente ricoperto di peperoncini. Per Ingorda, sfoggia invece una maschera di spaghetti al pomodoro e un abito a quadri così ampio da fungere da tovaglia a un vicino tavolo imbandito. «Dopo una breve esitazione, gli avventori hanno preso ad abbuffarvisi, trasformando così la maschera nel teatro di una performance ambivalente: celebrazione della convivialità napoletana e rappresentazione dello spreco indiscriminato di cibo nella società contemporanea». Con lo scoppio della pandemia, Daniele si prende una pausa dal suo alter ego per lanciare, assieme all’amico del cuore Davide Favetta, un brand di scarpe col tacco genderless. «Il progetto nasce dalla tesi di laurea di Davide su moda queer. Per la prima collezione, abbiamo realizzato modelli col tacco fino alla misura 45, ispirati a diverse icone del mondo lgbtqi+ come Amanda Lear o Raffaella Carrà, alle quali abbiamo dedicato, rispettivamente, una scarpa zebrata e un modello di stivali glitterati. Ultimamente», continua, «Dramna ha preso ad aggirarsi per le vie di Napoli con le nostre scarpe e i nostri accessori e a chiedermi con insistenza di entrare nel progetto Virili. E non posso certo dirle di no, considerando il grande debito che ho nei suoi confronti», ironizza lo stilista-performer-pescivendolo. «Nasco come persona timida e schiva. Le maschere di Dramna sono state la corazza con la quale ho trovato il coraggio di aprirmi al mondo. Col passare degli anni, la sua esuberanza e il suo fare disinvolto sono diventate anche una parte di Daniele, e per questo le sarò eternamente grato».

M.F.

Foto in apertura: Sofia Ginevra Gianni (1991), in arte SAGG Napoli, ritratta in via Stazio a Posillipo con il suo arco Azzurrà, indossa  un abito con ricamo all-over di paillettes ed elementi brillanti di Valentino. «Il mio sogno è che un giorno Milovan Farronato si trasferisca a Napoli e si vada a vivere insieme in riva al mare, in compagnia di vari gatti: l’animale che più ci assomiglia e da cui siamo affascinati». Foto di Roselena Ramistella. 

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