CINEMA

Fremont, il fascino discreto di una storia semplice

Il film di Babak Jalal coscritto con Carolina Cavalli è un prezioso esempio di cinema indipendente perfetto, su chi vive lontano da casa, sul destino e la vita ordinaria che sembra ripetersi sempre uguale. Ma nella quale, provandoci, possiamo scovare la meraviglia
Fremont recensione la complessità meravigliosa di una storia semplice

Fremont, il film di Babak Jalal coscritto con Carolina Cavalli, è un'opera preziosa su chi vive lontano da casa, sul destino e la vita ordinaria che sembra ripetersi sempre uguale. Ma nella quale, provandoci, possiamo scovare la meraviglia

La visione di Laura e di Paterson che, ogni mattina, nei giorni festivi e feriali, si svegliano abbracciati potrebbe risultare ostica o sublime a seconda del contesto emotivo dal quale vi ritroverete a guardarla. Se siete alla ricerca di qualcuno che vi capisca e la cosa vi devasta, quel siparietto poetico di cronaca minimale di vita di coppia che Jim Jarmusch ha diretto nel 2016 vi sarà intollerabile. Al contrario, se felicemente innamorati (a essere onesti sappiamo entrambi che dove c’è quotidianità scorre sempre e comunque un sottile senso di inquietudine, ma questo è un altro discorso) consoliderà la vostra idea di una vita-a-due perfetta, vissuta nella pienezza della più banale e confortante serenità.

È un aspetto a cui ho pensato guardando Fremont, il nuovo film del regista iraniano Babak Jalal co-scritto insieme a Carolina Cavalli dal 27 giugno nelle sale italiane, che alla cinematografia di Jarmusch così tanto dedicata alla complessità delle cose più semplici e alla forza del destino sembra ispirarsi. Perché nonostante la molteplicità e profondità degli elementi narrativi, la storyline è semplicissima e quasi del tutto priva di azione. Segue un segmento della vita di Donya (Anaita Wali Zada), ex traduttrice afghana che, dopo aver collaborato in terra con gli Stati Uniti guadagnandosi l’astio della sua famiglia, è fuggita in America prima che i talebani tornassero al potere. A Fremont, in California, si è tumulata in un minuscolo monolocale dove ha iniziato a soffrire di insonnia (teme gli incubi che potrebbero generare i suoi ricordi), vivendo circondata da un gruppo di afghani scappati dal regime e lavorando in una fabbrica di biscotti della fortuna dove compone enigmatici e ironici biglietti che racchiude in un involucro di farina e zucchero. È in questo contesto di stasi completa dove, le sembra, tutte le speranze sul futuro sono state cancellate dal suo esilio, che un giorno decide di nascondere in un biscotto un messaggio differente. Ci scrive “Alla disperata ricerca di un sogno”, poi lo firma e aggiunge il suo numero di telefono.

Con le sue scene statiche, i silenzi divertentissimi - il Financial Times ha lodato la sua «impassibilità inaspettatamente comica» - gli spazi disabitati ed espansi anche quando sono perimetrati dai muri di una stanza (è come se gli ambienti domestici avessero la stessa pasta delle periferie disperse di David Lynch, come se un oscuro presagio di immobilismo mortale ci si infiltrasse), Fremont è forse il film più sobrio che abbia mai visto. E, probabilmente, il miglior esempio recente di “cinema indipendente perfetto”. Con un sobrio bianco e nero e una sobria fotografia, una straordinariamente sobria colonna sonora Jazz e un sobrio uso delle parole, è la miglior materializzazione di quanto una vita comune possa essere anche cinematografica nella sua complessità. Per le connessioni umane che instauriamo e per ciò che può sorprenderci, anche se ci sembra che ogni giorno si ripeta uguale all’altro e ci arrovelliamo intorno all’inevitabile interrogazione sul senso profondo della nostra esistenza. La felicità, purtroppo, è un talento.

Fremont, dall’omonima cittadina reale, la quarta più estesa della Silicon Valley che ha lo stesso nome del generale che nel 1846 la sottrasse ai messicani e che è sede della più grande comunità afghano americana degli States, è il quarto film di Babak Jalal. Segue Frontier Blues del 2009, mosaico di quattro storie ambientate nell’Iran del nord al confine con il Turkmenistan, poi Radio Dreams sulla vita vera di un gruppo di fan iraniani dei Metallica e infine Land, sulla volontà di un uomo di riportare a casa il corpo del figlio morto durante gli scontri. Sono storie di desideri inespressi e spesso dell’impossibilità di realizzarli, di momenti realistici improvvisi dentro a vite realistiche, che possono modificare per sempre il corso degli eventi come succede anche in Amanda, l’esordio con cui Carolina Cavalli ha raccontato l’attimo per il quale nella vita di una 25enne solitaria è cambiato tutto.

Ci hanno abituato a credere che il male fosse banale perché della banalità del male ci siamo abituati a leggerne ovunque - è forse il titolo del saggio dell’Aredt una delle frasi più inflazionate e abusate dal giornalismo? - e nessuno ci ha mai detto invece di quanto fosse banale anche tutto il resto, l’amicizia e la vita di coppia e svegliarsi abbracciati e starsene da soli e pure lamentarsi di starsene da soli, desiderare un lavoro diverso o un incontro che ci svolti la vita come succede per Donya e per il personaggio interpretato in Fremont da Jeremy Allen White, un malinconico meccanico solitario che con la protagonista condivide la “ricerca disperata” di qualcosa che nemmeno conosce.

Anni fa, ho trovato un biglietto in un biscotto della fortuna che recitava “Un giorno brillerai come un grande sasso”, che ipotizzo essere una traduzione un po’ approssimativa di “pietra preziosa”. Il fatto che qualcuno immaginasse che, un giorno, avrei potuto finalmente brillare come l’elemento naturale più mediocre del mondo mi aveva fatto sorridere. Mi aveva fatto pensare che forse era vero e che quel pezzettino di carta sarebbe anche potuto essere, con un po’ di dietrologia, un monito elegantemente sibillino e metaforico per invitarmi ad apprezzare la qualità straordinaria dell’ordinario. “Un giorno brillerai come un grande sasso”, e io lo farei se solo mi ricordassi dove l’ho messo.

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